Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 26 giugno 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Dodicesima Parte)

 

24. Dallo spirito delle Logge alla figura sacra più invocata e celebrata in Firenze. Il Leonardo anatomista è giunto all’esame dei ventricoli cerebrali, nei quali mille anni prima si è creduto di poter trovare traccia dell’anima, ma la cultura di Leonardo è diversa, e differenti sono le sue aspettative. Non solo non ritiene, come i Padri della Chiesa, sufficiente seguire le indicazioni degli anatomisti greci e si prefigge di seguire nuove vie tecniche per superare gli ostacoli davanti ai quali si erano fermati i suoi predecessori, ma ritiene anche necessario studiare prima più approfonditamente le persone da vive, perché si è reso conto che un vivo non è semplicemente un morto che ha ancora l’anima dentro di sé. Una consapevolezza che, da un lato può averlo messo sulla via dei manoscritti di Galeno, all’epoca considerato un precursore nello studio della fisiologia umana, e dall’altro può averlo condotto a cercare modi e ragioni per distinguere lo spirito umano da un’anima – oggi diremmo biologica – posseduta anche dagli animali.

Come abbiamo fatto per comprendere la cultura rinascimentale del corpo, incamminandoci in un percorso che ci ha portato fino alla teologia del Corpus Domini, così cercheremo ora di approfondire la concezione dello spirito umano attraverso il vissuto dell’esperienza pubblica, la riflessione spirituale sulla figura sacra più invocata e celebrata e, infine, con una vicenda esemplare con la quale ha dovuto fare i conti lo stesso Leonardo.

La Firenze rinascimentale ha conosciuto il grado più elevato di vicinanza e scambio tra i cittadini di ogni ceto e condizione, come testimoniato dal massimo sviluppo delle Logge[1], strutture architettoniche che consentivano alle famiglie più abbienti di uscire stabilmente dal perimetro domestico, affacciarsi all’esterno ed entrare in mutuo scambio con i protagonisti di piazza della vita cittadina[2]. Come in vetrina, le famiglie si esponevano su questi affacci di spazio esterno per cerimonie, giochi o svaghi; alcuni per cercare consenso nell’esposizione di tesi teologiche o filosofiche, altri alla ricerca di pubblico per esibizioni teatrali o musicali, altri ancora per reclutare partecipanti alle competizioni basate sulla creazione estemporanea di versi o, infine, solo per prendere aria d’estate o presentarsi all’appuntamento quotidiano con passanti abituali.

In un documento del 1474 troviamo un esempio significativo del ruolo sociale svolto dalla Loggia dei Rucellai[3] in occasione della cerimonia di nozze di Bernardo Giovanni Rucellai con Nannina di Piero de’ Medici: l’accorrere dei Fiorentini per assistere alla celebrazione che aveva luogo sulla Loggia, indusse le famiglie a trasformare l’evento in una festa di popolo protratta per tre giorni, con “ben cinquecento invitati a tavola sotto la loggia e sulla prospiciente piazza, indaffarati a divorare e a brindare alla salute degli sposi”[4].

Ho cercato di individuare nelle trattazioni storiche orientate all’analisi della civiltà, del costume e delle tradizioni popolari rinascimentali, quale fosse la principale fonte di aggregazione.

Il principale elemento culturale di riconoscimento identitario, in grado di superare ogni barriera di parte, fazione e ceto sociale, di mettere d’accordo francescani, domenicani, chierici e prelati di ogni appartenenza con il popolo più semplice, è il riconoscimento in Maria del modello sublime di bellezza della bontà che, attraverso l’umiltà dell’obbedienza, la povertà per amore del prossimo e la purezza per amore di Dio, realizza l’esempio più alto di vita dedicata all’attuazione della volontà del Padre, dopo quello dello stesso Cristo.

La riflessione teologica di quegli anni, con effetti di influenza sulla vita culturale cittadina, è principalmente focalizzata su due interventi divini nella dimensione umana necessari all’Incarnazione: l’Annunciazione attraverso le parole del messaggero angelico riportate da San Luca evangelista, che determina l’entrata nella coscienza di Maria, quale creatura, della comunicazione del piano divino sulla sua vita per la Redenzione dell’umanità; e la Concezione senza peccato originale, e perciò Immacolata, di Maria nel seno della madre Sant’Anna, veneratissima dai Fiorentini[5].

Gli storici e i cristiani di confessione cattolica di oggi sono abituati a pensare all’Immacolata Concezione di Maria come a un dogma proclamato da Pio IX l’8 dicembre del 1854 con la bolla Ineffabilis Deus, in una temperie collegata con le apparizioni di Lourdes del 1858[6].

Ma è documentata quattrocento anni prima, in Firenze, l’origine teologica, devozionale e liturgica della celebrazione del mistero, come si legge in queste interessanti annotazioni: “La Repubblica Fiorentina il 12 aprile 1440 faceva pubblicare un decreto, col quale si stabiliva che l’8 dicembre di ogni anno fosse «Feriato Solenne» e che la Signoria si recasse a fare l’offerta in Santa Maria del Fiore. Nel 1448 la Signoria stanziava 3500 fiorini d’oro per erigere, in Firenze, una chiesa in onore dell’Immacolata Concezione, la quale fu edificata solo nel 1539, da una Congregazione di preti sorta nel 1515 in via dei Fibbiai”[7].

Si comprende dunque l’attualità per Leonardo della questione del concepimento senza peccato quale requisito per ospitare il divino; tematica che lui studia come personificazione della purezza.

I documenti cinquecenteschi consentono di dedurre, dopo la morte di Leonardo, una lieve riduzione del fervore popolare per l’Immacolata, che suggerì di correre ai ripari: “Nel 1527, al tempo del Gonfaloniere Niccolò Capponi, fu rinnovato il decreto del 1440 e, inoltre, comandato che nel giorno della Concezione tutti i negozi e le botteghe di ogni genere rimanessero chiusi, pena la multa di 10 fiorini d’oro”[8].

Nella trasmissione del logos l’arte figurativa è seconda solo alle voci che si levano dai pulpiti e sa di avere la grande responsabilità di contribuire all’evangelizzazione attraverso la forza affettiva ed emozionale di un linguaggio analogico universale. Nella bottega del Verrocchio, che pure seguiva le passioni del mondo realizzando gioielli e accessori di abbigliamento, è massimamente sentita questa missione, che si esprime con caratteri diversi nei suoi tre maggiori allievi: Pietro Perugino, che trasferisce la devozione per la Vergine Maria al suo allievo Raffaello Sanzio, Sandro Botticelli, che affida alla realizzazione estetica della bellezza la missione di elevare la mente ai valori dello spirito, e Leonardo da Vinci che riflette sui rapporti più profondi e teologici tra sentimenti religiosi e arte figurativa.

L’Annunciazione e la purezza dell’Immacolata sono due tematiche importanti nella riflessione e nell’arte di Leonardo, e costituiscono due riferimenti cruciali per l’analisi di tutto lo studio condotto negli anni per la rappresentazione della figura della Madre di Dio.

Il capolavoro di raffinatezza, precisione, delicatezza, stile, eleganza e atmosfera spirituale che è l’Annunciazione degli Uffizi è stato possibile grazie alla geniale intuizione di Leonardo: per trasmettere i valori che intendeva comunicare sarebbe stato necessario evocare nell’osservatore uno stato mentale, un particolare modo della coscienza che avrebbe aiutato a sentire, più che a ragionare, per percepire il soprannaturale. E, per questo fine, si rende conto che ogni particolare del quadro, anche il dettaglio più piccolo, avrebbe dovuto prendere parte in modo coerente alla realizzazione dell’effetto di evocazione: dall’intonazione del dipinto alla gestualità delle due figure sacre, dal profilo estetico di alberi dello sfondo, curati con taglio artistico dai giardinieri, alle simmetriche forme scolpite del sarcofago che sostiene il leggio, tutto avrebbe dovuto trasmettere preziosa semplicità.

È questo l’insegnamento di Dio – secondo Leonardo – quando ci offre il modello di una fanciulla sedicenne non compromessa con alcuna delle idolatrie del mondo e già resa unica dal concepimento senza peccato, per indicarci la preziosa semplicità del fiat, ossia dell’obbedienza assoluta alla legge dell’amore.

Nonostante a quell’epoca fosse ancora molto giovane, il Genio vinciano è già padrone di alcuni mezzi del linguaggio figurativo che oggi descriviamo in termini di psicologia della percezione. Ad esempio, aveva compreso che, per generare l’effetto evocativo d’ambiente, non doveva essere possibile con un solo colpo d’occhio abbracciare le due figure: la distanza da interporre fra l’angelo e Maria doveva essere tale da costringere l’occhio a percorrere uno spazio, quello dell’atmosfera del dipinto, nel trascorrere da un soggetto all’altro: dal viso del messaggero a quello della fanciulla, da uno sguardo all’altro, dalla mano dell’uno a quella dell’altra.

Lo sviluppo secondo il diametro orizzontale della scena è sfruttato dal giovane talento in maniera davvero magistrale: la lunga linea di cesura del parapetto che separa, e allo stesso tempo congiunge la scena al mondo esterno, si interrompe all’altezza del viso e della mano benedicente dell’angelo, così che possano risaltare sullo scuro del fondo, e indica tre aree di focalizzazione, le due principali, dell’angelo genuflesso e dell’Annunziata, e quella secondaria del sarcofago scolpito[9].

Oltre ad essere stato studiato approfonditamente con disegni e prove di colore, il dipinto aveva avuto una sua prova generale nell’Annunciazione del Louvre, che faceva parte della predella dell’opera Madonna di Piazza commissionata a Lorenzo di Credi, collega di Leonardo alla bottega del Verrocchio.

Leonardo disegna molte Madonne, non solo per la preparazione di dipinti, anche come bisogno personale di studio del soggetto; sono tante che si potrebbe dedicare un’intera monografia a questo argomento, seguendo con un’analisi dell’evoluzione del disegno gli sviluppi interiori che hanno accompagnato l’acquisizione di maestria nell’uso del linguaggio grafico e tonale, per capire ciò che sentiva e parlarci della Madre di Dio.

Tra il 1475 e il 1480 la maggior parte dei disegni è costituita da studi di Madonne con Bambino, ma non si tratta di riproduzioni in cui si ferma a rendere la sacrale maestà del viso come nel prototipo tanto caro ai Fiorentini, costituito dall’icona dell’Arte dei Medici e degli Speziali, ma di indagini col mezzo della grafica sulle dinamiche espressive che rendono lo spirito di una donna, che avrà avuto in sé alcune forme della tenera spontaneità che Leonardo poteva cogliere dal vero. E proprio in alcuni di questi disegni non rifiniti, che sono poco più di semplici schizzi, sono evidenti aspetti di una naturalezza straordinaria, come nella Madonna che porge un melograno a un Gesù Bambino posto su un cuscino, su di un tavolo, ma accomodato come le stesse in grembo.

Nel 1478 Leonardo riceve la prima commissione personale, per conto della Signoria, firmando un contratto di soli 22 fiorini per realizzare un’opera per la Cappella di San Bernardo in Palazzo Vecchio, ma non si occupò mai di impostare l’opera: “Cominciò anzi a lavorare su altri due dipinti della Vergine che non gli erano stati commissionati, ma che rispondevano di più a un suo interesse”[10]. In uno dei quaderni troviamo questa annotazione: “…bre 1478 inchominciai le due Vergini Marie”[11]. Una delle due è sicuramente la Madonna Benois[12], detta anche la Madonna del fiore, perché serra tra indice e pollice un fiore che il Bambino Gesù cerca di afferrare, intento a guardarsi la mano nel tentativo di presa, con quell’atteggiamento del capo tipico dei bambini così piccoli. Mi permetto di consigliare il lettore di procurarsi un’immagine di questa Madonna per verificare quanto affermo: non è semplicemente spontanea e vera nel sorriso e nella gestualità, ma ti accorgi che sta parlando; si vede che dice qualcosa al suo bambino. Una cosa che non si era mai vista in pittura.

Studiando la madre sacra, la maternità, la donna, Leonardo è riuscito a rendere lo spirito, che non è semplicemente un corpo che vive, perché sai che ha l’anima e, in pittura, lo vedi dal fatto che ha gli occhi aperti e tiene spontaneamente una postura, ma è quell’essenza che si rivela come qualità dell’essere che evoca sentimenti.

La seconda delle due Vergini Marie dell’annotazione del 1478 era stata identificata da alcuni con la Madonna del garofano dell’Alte Pinakothek di Monaco, ma questa ipotesi è stata oggi definitivamente abbandonata e questo dipinto è stato datato intorno al 1473[13].

Nell’Adorazione dei Magi[14], commissionata dai monaci di San Donato a Scopeto e rimasta incompiuta alla partenza per Milano, Leonardo adotta la soluzione ideata da Sandro Botticelli, consistente nel porre la Sacra Famiglia al centro e i Magi alla base di un’ideale piramide che ha come vertice la figura di Maria. I lunghi e accurati studi testimoniati dai numerosi disegni, primo fra tutti quello custodito nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, consentono una perfetta organizzazione dello spazio in funzione dell’effetto percettivo dei valori simbolici e compositivi, ma ci si rende conto che il vero fulcro estetico dell’Adorazione dei Magi è la giovane Madonna che ricorda nel viso la fanciulla dell’Annunciazione.

La forma quadrangolare e quasi quadrata della tavola ci consente di tracciare idealmente le diagonali fra angoli opposti, e accorgerci che il punto di incontro corrisponde all’area occupata dal capo della Vergine; si legge: “L’impostazione del quadro è assolutamente originale, ma estremamente rigorosa. Le figure della Madre col Bambino e della folla adorante sono racchiuse in un triangolo il cui centro, la Vergine, è il punto più luminoso”[15].

L’indagine leonardiana su Maria si comprende meglio alla luce dei suoi studi sulla donna, sviluppati attraverso l’osservazione anatomica e le deduzioni funzionali. Il corpo della donna è matrice e origine universale della vita naturale; il corpo inviolato di Maria è sede dell’Incarnazione e, grazie alla sua condizione virginale, ha potuto generare colui che ha donato a tutti la possibilità della vita eterna.

Allo studio anatomico dell’apparato riproduttivo Leonardo dedica un arco temporale di un decennio, durante il quale passa dal semplice interesse per la fisiologia del coito in vivo a quei disegni dell’utero gravido, delle ovaie e delle altre strutture degli annessi, che sono fra i più ammirati del corpus anatomico. Lo studio dell’embriologia, pur condotto in massima parte sui bovini, si poté avvalere della dissezione di un feto di circa sette mesi, estratto da una donna morta in gravidanza: “I disegni relativi ce lo mostrano, infatti, da diversi punti di vista, rannicchiato all’interno dell’utero con il cordone ombelicale che Leonardo dice di essere «della lunghezza del putto ad ogni sua età»”[16].

 

25. Protetta dal bisogno antropologico di mistero sopravvive in Firenze una storia rinascimentale. Per comprendere meglio il senso che Leonardo attribuiva ai suoi studi anatomici, e particolarmente a quelli sul cervello, è necessario considerare il suo interesse per tutto ciò che consentisse di rilevare differenze tra la vita e la morte: quando esplora il corpo del centenario che muore improvvisamente mentre parla con lui senza alcun malore, cerca in tutte le differenze materiali fra la morte e la vita delle tracce e dei segni dello spirito o soffio vitale.

Non prestava fede ai tanti racconti popolari su fantasmi, spiriti disincarnati aleggianti da secoli, trasmigrazioni di anime e reincarnazioni, ma non escludeva la possibilità di indagare le ragioni all’origine di quelle storie, o anche delle forti suggestioni personali, come quelle del boia che raccontava di aver visto come un piccolo soffio di un vapore lieve, leggero e trasparente uscire dal corpo di un uomo che aveva appena giustiziato. Una specie di pneuma, appunto, come quello di cui avevano scritto gli antichi e i Padri della Chiesa, visto da un uomo che non sapeva nulla di tali tesi.

Il Genio vinciano, abituato fin dall’infanzia a fidarsi dell’uso della ragione applicata all’esperienza, riconosce facilmente il ricorso all’irrazionale per far fronte a paure profonde e inconfessabili, e comprende che i tropi popolari di antiche credenze sopravvissute come superstizioni possano eccitare la fantasia creativa per dar corpo alle paure e ottenere condivisione e supporto per le proprie ansie. Tuttavia, quando i testimoni di un fatto quanto meno singolare sono ancora vivi e da questo fatto ne è già nata una leggenda, che ha dato luogo a una credenza estesa perfino a qualche membro del clero, non si può rimanere indifferenti. E se, tuo malgrado, per qualcosa che ti riguarda sei investito dall’onda emotiva suscitata da questa credenza, quanto meno devi occupartene. Così accade a Leonardo. Del fatto dirò più avanti, qui mi limito a ricordare che si diceva, e si racconta ancora oggi, che nella notte del primo martedì di ogni mese in quell’angusto spazio non molto mutato da allora e identificato con la piccola Piazza del Giglio, dove si respira più Medioevo che Rinascimento, appare il fantasma di una giovane donna bellissima.

Amerigo de’ Benci, nobile e ricco amico del notaio Ser Piero da Vinci, decide di lasciare le case della sua famiglia site oltre il Ponte alle Grazie per trasferirsi nel cuore della vita culturale fiorentina: compra quello che ammiriamo tuttora come Palazzo de’ Benci[17], acquisendo le proprietà circostanti, subito di fronte alla Loggia dei Peruzzi, famiglia illustre che aveva ospitato in casa propria l’Imperatore d’Oriente al tempo del Concilio[18]. Una delle ragioni del trasferimento di Amerigo Benci è una figliola adolescente di straordinaria precocità intellettuale, coltissima e raffinata, che sarebbe diventata una degna protagonista dell’arcadia medicea.

Leonardo, in ottimi rapporti con la famiglia Benci, diviene poi amico del figlio di Amerigo, Giovanni Benci, al quale lascerà in custodia, come sappiamo da una sua annotazione autografa, un libro e il suo mappamondo[19]. Ma, prima di questi avvenimenti, Amerigo presenta la sua amata figliola Ginevra a Leonardo, e gli chiede di farle il ritratto.

La ragazza aveva un fascino particolare, suggestivo e per qualcuno addirittura inquietante, sia per uno spirito e uno stile da donna matura in un corpo appena adolescente, sia perché, ancora giovanissima, Lorenzo il Magnifico, innamorato di una sua zia, Bartolomea de’ Nasi, le aveva dedicato con grande risonanza pubblica due sonetti delle sue Rime spirituali: “Segui, anima devota” e “Fuggendo Lot”[20].

È probabile che il rapporto di amicizia tra la modella diciassettenne e il pittore ventiduenne sia nato proprio nel 1474, durante le sedute di posa per il ritratto. Leggiamo dall’Anonimo Gaddiano, una delle più antiche fonti di notizie sul Genio vinciano: “Ritrasse Leonardo in Firenze dal naturale la Ginevra di Amerigo Benci, la quale tanto bene finì che non il ritratto ma la propria Ginevra pareva”[21].

Il ritratto di Ginevra de’ Benci, appartenuto ai principi di Liechtenstein e ora alla National Gallery of Art di Washington, è riprodotto in tutte le biografie di Leonardo e costituisce un interessantissimo termine di paragone con le Madonne: lo studio delle differenze tipologiche dei particolari aiuta a comprendere il modo in cui il linguaggio pittorico rende gli elementi trascendenti.

Al tempo di questo ritratto, Leonardo è avvicinato da tanti che gli chiedono come sia la Ginevra de’ Benci vista da vicino nella sua realtà quotidiana; e qualcuno gli racconta una storia avvenuta nel 1400, più di settant’anni prima, e che lui aveva già sentito menzionare come leggenda popolare o favola dal vero, di quelle che si raccontano dinanzi al fuoco nelle lunghe sere d’inverno.

Gli si dice anche che è necessario che lui conosca questa storia, perché i Benci sono persone strane per tante ragioni: non si conosce la provenienza della loro enorme fortuna, Amerigo come il suo babbo lavora in Svizzera, sta sempre sulle sue, frequenta solo persone di altissimo rango e, quando si è trasferito in centro, si è presentato in società con questa fanciulla, Ginevra, come sua figliola, ma nessuno l’aveva mai veduta prima, e nessuno sa chi sia la madre.

Ecco la storia accaduta settantaquattro anni prima, come emerge dai documenti: Ginevra della nobile famiglia degli Almieri o Amieri[22], pur essendo in segreto legata a un giovane del popolo, Antonio Rondinelli, fu costretta dall’autorità paterna ad andare in sposa al nobile Francesco Agolanti. “Dopo quattro anni di matrimonio incominciò a sentirsi male e un giorno presa da malore fu sepolta nel tumulo di famiglia presso il Campanile di Giotto. Svegliatasi Ginevra dal letargo, ebbe la forza di alzare la lapide e di andare a casa del marito in Via dell’Oche, angolo Via degli Adimari, il quale vedendola e ritenendola un fantasma la respinse. La stessa sorte le toccò andando dal padre e da uno zio che abitavano nelle adiacenze della loggia di S. Bartolomeo (una chiesa demolita nel secolo XVII). Respinta dai parenti, corse a casa di Antonio Rondinelli, il suo vero amore, che la ristorò, la curò, la sposò. Più tardi l’Agolanti, saputala viva, ricorse al Tribunale Ecclesiastico e il Vicario del vescovo fiorentino sentenziò: «che per essere stato disciolto il primo matrimonio dalla morte, poteva la donna legittimamente passare ad un altro marito»”[23].

Ma la versione che circolava allora era ben diversa, soprattutto in ragione del fatto che la morte apparente, o addirittura il concetto di coma reversibile, non appartenevano certo alla cultura popolare del XV secolo: si diceva che Ginevra degli Almieri fosse realmente morta e tumulata. D’altra parte chi potrebbe dall’interno di un’angusta tomba rimuovere la lapide e venire fuori?[24] E poi, se fosse stata viva e capace di andare di persona a casa dal marito, come le sarebbe stato possibile non essere riconosciuta? E, ammesso che il marito abbia finto di non riconoscerla, perché non avrebbero dovuto riconoscerla né il padre, né lo zio, in case e circostanze diverse? Infine, perché Francesco Agolanti quando sente dire da altri che la moglie è viva e risposata fa ricorso al Tribunale Ecclesiastico?

Le spiegazioni possibili sono tante, ma la convinzione popolare era che l’anima disincarnata di Ginevra fosse stata condannata a scontare sulla terra le sue colpe e che fosse entrata nel corpo della donna che aveva sposato Antonio Rondinelli e poi, morta quella, nel corpo dell’enigmatica Ginevra de’ Benci[25]. E così fu detto a Leonardo da Vinci.

Non è dato sapere se il Genio abbia rifiutato quelle fole con assoluto distacco, condannando la pratica irrazionale di confabulazione eretica, se invece le abbia respinte con una serena e sorridente distanza interiore, oppure se ne sia rimasto in qualche modo impressionato. È certo che in molti angoli della città, accompagnandosi con liuti, ghironde e altri cordofoni a ruota come la symphonia adoperata dai Francesi per le chansons de geste, cantori, menestrelli e altri musici cantano quasi ogni giorno l’incredibile vicenda della bellissima sepolta viva, in versioni cangianti per sequenze armoniche e varietà dei colori romantici[26].

In quegli anni, Agostino Velletti aveva raccolto i vari spunti narrativi, componendo un poemetto intitolato La Storia di Ginevra degli Almieri che fu sepolta viva in Firenze[27]; in prevalenza si cantava che Ginevra fosse svenuta alla vista dell’amato, creduta morta e ritornata al mondo dei vivi per coronare il suo sogno d’amore. Ma si raccontava anche la sinistra e lugubre storia di un fantasma: di notte appariva Ginevra come anima in pena, avvolta in un sudario, lungo il tragitto che aveva percorso per essere riaccolta tra i vivi. In ogni caso, il rilievo della vicenda per la vita pubblica è testimoniato dalla toponomastica: Via della Morta è la denominazione data alla via percorsa da Ginevra degli Amieri e conservata ancora oggi nello stradario cittadino.

Prima di tornare a Leonardo da Vinci, desidero fare qualche considerazione su alcune versioni del racconto e proporre una chiave interpretativa che mi sembra riportare a ragione gli aspetti meno plausibili della trama.

La Ginevra che esce dalla tomba e si aggira coperta da un lenzuolo come un fantasma, delle primissime versioni, deve aver sollevato l’obiezione che i Fiorentini non avvolgevano come gli Ebrei al tempo di Gesù i defunti in un sudario. Dunque, i solerti autori decidono di adeguare questo dettaglio del racconto all’uso fiorentino del tempo, di rivestire con l’abito nuziale una giovane moglie che fosse morta prima di diventare madre. Allora sarà l’abito bianco a farla scambiare per un fantasma dal marito, dal padre e dallo zio. Perché Ginevra si sente male? La vera ragione, di cui dirò presto, è poco romantica, allora si opta per una grave inappetenza causata dall’essere trascurata dal marito[28]. In tal modo si accrescono le simpatie per l’eroina, alienandole al consorte, così che il lettore o l’ascoltatore della storia cantata possa rimanere dalla parte della protagonista anche nel finale.

Un altro ostacolo alla plausibilità era l’uscita dalla tomba di famiglia in cui era stata tumulata, e dunque si provvede a cambiare la prima versione, basata sul fatto che gli Amieri, così come gli Agolanti, non venivano interrati in casse di legno, e si indica questa modalità di sepoltura che avrebbe consentito, almeno teoricamente, la riapertura. Infatti, nelle rappresentazioni pittoriche delle epoche successive si rappresenta Ginevra che solleva il coperchio di una bara di legno. Ma qualcuno, per prudenza, era andato oltre: “…adagiata in una bara priva di coperchio in attesa di seppellirla il giorno seguente. Era la notte del primo martedì del mese e all’improvviso Ginevra aprì gli occhi e si risvegliò”[29]. E così la conversione da inquietante fantasma che esce dalla tomba in “bella addormentata nel bosco” è compiuta.

La chiave interpretativa che ci consente di conferire senso agli aspetti meno verosimili della trama è l’epidemia di peste. Proprio per ricondurre la malattia di Ginevra a una patologia causata da Pasteurella pestis, qualche storico ha proposto di spostare la datazione degli eventi dal 1400 al 1396, quando è documentata una grave pestilenza in Firenze. Si può, tuttavia, conservare la data originaria, in quanto nel 1400 si era registrata una recrudescenza della temuta infezione mortale. I Fiorentini, come mi è capitato di ricordare in altre occasioni, temevano molto il contagio e, pur non conoscendo i microrganismi patogeni che sarebbero stati scoperti nel XIX secolo, mettevano in atto misure per evitare ogni contatto, anche mediato da oggetti inanimati, con gli appestati. I commercianti, nel solo sospetto che i clienti potessero pagare con monete contaminate, imponevano di versare il pagamento in recipienti contenenti alcool e aceto; le ritiravano poi adoperando molle da fuoco e le risciacquavano ben bene prima di toccarle. Gli ammalati venivano isolati e tutti gli indumenti personali e gli effetti letterecci bruciati.

Ginevra aveva contratto la peste ed era stata condotta in isolamento[30]. Credendola morta, era stata trasferita nella parte del cimitero di Santa Reparata riservato agli appestati; per evitare il contagio da contatto, gli appestati erano trasferiti avvolgendoli in grandi lenzuoli, e così deve essere stata collocata Ginevra nella bara. Le casse da morto dei defunti per peste rimanevano aperte fino all’arrivo dei familiari, che dovevano procedere all’identificazione, necessaria per la cristiana sepoltura e la certificazione legale dell’avvenuto decesso. In tal modo si spiega sia il “sudario”, adottato come unico possibile indumento alla ripresa della coscienza, sia l’uscita da una bara non chiusa.

Considerata l’assoluta improponibilità come veridica della storia di un marito, un padre e uno zio che d’un tratto non riconoscono più la loro congiunta, la peste spiega cosa sia realmente accaduto: non si è trattato di un mancato riconoscimento, ma di un mancato accoglimento in casa per paura del contagio. Antonio Rondinelli, evidentemente anche sostenuto dal suo sentimento per Ginevra, affronta il rischio di morte, e la sua audacia è premiata. Ginevra, che era entrata nella “morte sociale” di tutti gli appestati, ritorna realmente alla vita con la guarigione.

A questo punto, passato il rischio del contagio, Francesco Agolanti per tentare di recuperare la moglie si rivolge al Tribunale Ecclesiastico, e la sentenza che abbiamo letto sembra quasi dire: hai continuato a crederla morta negandole l’identità; ebbene, allora è morta davvero e da rediviva ha un’identità diversa.

 

 

 

 

[continua]

 

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-26 giugno 2021

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[1] Si è scelto di conservare la maiuscola come in antico per indicare questa forma architettonica per distinguerla dalle semplici logge, pur comuni in Firenze come in tutta l’Italia centro-settentrionale, costituite da un fondo con apertura sulla strada, protetta da una balaustra o parapetto e generalmente adibite ad attività commerciali.

[2] La progressiva chiusura delle Logge, fin quasi alla scomparsa del secolo successivo, testimonia l’involuzione sociale.

[3] Al tempo del capostipite Alamanno del Giunta, la famiglia era già benestante e commerciava in tessuti con l’Oriente, ma la sua grande fortuna ebbe un’origine accidentale, secondo un racconto dell’aneddotica storica: Alamanno, sulla via del ritorno da un viaggio, scese da cavallo per un bisogno fisiologico e orinò su un lichene, che divenne di un bel colore viola. Il colore si rivelò ottimo per tingere i tessuti e resistente; così piantarono il lichene in Firenze (Orti Oricellari) e trovarono il modo per sviluppare con una reazione acida il viola in quantità industriali. I sovrani nordafricani e mediorientali, così come tanti nobili europei, compravano il panno viola per farne abiti dal colore insolito, facendo la fortuna della famiglia, che cambiò il nome in Oricellari, poi ingentilito in Rucellai.

[4] Cfr. Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte seconda (II vol.) II ed., p. 139, Tipografia Coppini, Firenze 1996.

[5] La celebrazione della festività di S. Anna si fa risalire alla cacciata del tiranno Gualtieri di Brienne, sedicente “Duca di Atene”, il 26 luglio del 1343 da parte del popolo fiorentino, che avrebbe avuto la meglio sul tiranno protetto dal suo esercito mercenario, grazie all’intervento della santa. La chiesa di Orsanmichele le fu dedicata per ringraziamento.

[6] Si sono lette in passato anche interpretazioni ideologiche di militanza “ateistica” relative all’istituzione del dogma come “creazione” della teologia vaticana ottocentesca al servizio di interessi connessi al particolare momento storico.

[7] Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte prima (I vol.) IV edizione, p. 139, Tipografia Coppini, Firenze 1997.

[8] Foresto Niccolai, op. cit., idem. Si legge poi: “Ogni anno gli Eccelsi Signori dovevano far celebrare una messa solenne nella Chiesa Cattedrale nella festa dell’Immacolata e distribuire 2 doti di L. 100 a ragazze da marito e 100 lire a monasteri di monache mendicanti” (ibidem).

[9] Verrocchio aveva scolpito su commissione dei Medici, per la sagrestia vecchia di San Lorenzo, un sarcofago che Leonardo ebbe per modello, studiandone il ricercatissimo dettaglio e inserendolo come particolare prezioso, per la sua raffinata bellezza. Questa è la ragione della presenza di un elemento così insolito al posto di un semplice tavolo per reggere il leggio.

[10] Silvana Levi Orban, Leonardo da Vinci, p. 19, Edizioni Futuro, Verona 1980.

[11] Silvana Levi Orban, op. cit., idem.

[12] Il capolavoro, così detto perché appartenuto a lungo alla famiglia Benois, è un olio su tavola (poi trasportato su tela) di soli 48 x 31 cm, esposto al Museo Ermitage di San Pietroburgo.

[13] Sulla Madonna del garofano (62 x 47,5 olio su tavola) ho molti dubbi. Il Bambino – mi sbilancio – sicuramente non è di Leonardo, perché gli errori grossolani nel disegno, a tratti rivelati dalle luci sbagliate nel modellato, non possono appartenere nemmeno all’ultimo garzone di bottega del Verrocchio. Qualcuno ha attribuito gli errori a un cattivo restauro antico. Molti dubbi ho anche sulla recente identificazione con la Madonna della caraffa descritta da Vasari come opera per Papa Clemente VII: il piccolo vasetto trasparente al margine in basso, mi sembra un particolare di complemento che non corrisponde a queste parole: “Contrafece una caraffa piena d’acqua con alcuni fiori dentro, dove oltre la maraviglia della vivezza, aveva imitato la rugiada dell’acqua sopra, sì che ella appariva più viva che la vivezza” [Vasari, Le vite…, 1568]. Insieme con gli altri particolari mi fa pensare ad elementi leonardeschi posti insieme, quali le maniche dell’abito della Madonna, il panneggio copiato, i monti dello sfondo, ecc., per caratterizzare in tutti i modi il dipinto come opera del maestro di Vinci. Il collo di questa Madonna, oltre che troppo ampio, è inserito male sulle spalle e sul torace: si tratta di un “fondamentale” di disegno della figura che Leonardo aveva già da bambino e non poteva aver perso d’un tratto: non avrebbe sopportato di tenere lo sguardo su quell’errore fastidiosissimo, e se lo avesse compiuto, poniamo un apprendista, lo avrebbe corretto immediatamente. Gli storici dell’arte che hanno attribuito questa Madonna a Leonardo non sanno disegnare e non hanno sensibilità ed esperienza estetica sufficienti a compensare il loro difetto. È ragionevole ipotizzare che l’autore possa aver adoperato un cartone di Leonardo per lo spolvero delle sagome e dello spartito, e che nell’esecuzione abbia avuto a disposizione se non un originale, qualche altra opera del maestro.

[14] Un olio su tavola (2,46 m x 2,43 m) rimasto in abbozzo e attualmente esposto alla Galleria degli Uffizi.

[15] Silvana Levi Orban, Leonardo da Vinci, p. 23, Edizioni Futuro, Verona 1980.

[16] Carlo Pedretti, L’Anatomia, in Leonardo – Arte e Scienza, p. 124, Giunti, Firenze 2000.

[17] In Via de’ Benci n. 16 davanti all’Arco dei Peruzzi. La notizia della Loggia dei Peruzzi dirimpetto è del Vasari. Il padre di Amerigo, Giovanni Benci, era stato, per conto di Cosimo il Vecchio, direttore della filiale svizzera di Ginevra della compagnia medicea, e poi direttore generale di tutte le filiali. Amerigo da banchiere voleva diventare mecenate.

[18] Secondo alcuni storici esisteva un grado di parentela con i Peruzzi perché ritengono Amerigo figlio di Ginevra Peruzzi (Alessandrini, Glori).

[19] È stato poi ricostruito che Leonardo, prima di partire per Milano, lascia presso Giovanni Benci (perché Amerigo muore) oltre al famoso mappamondo che aveva realizzato per mostrare la collocazione dell’America tra il vecchio continente e l’Asia, molti libri, strumenti di lavoro, pietre preziose e, come già indicato da Giorgio Vasari, l’Adorazione dei Magi incompiuta [Yves Renouard, Eugenio Ragni, BENCI Amerigo in “Dizionario Biografico degli Italiani”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2021].

[20] È Francesco Guicciardini a raccontare di questo amore di Lorenzo (Storie Fiorentine); i sonetti si possono leggere in Lorenzo de’ Medici, Opere, vol. II (a cura di Attilio Simioni), Laterza, Bari 1914.

[21] Cit. in Silvana Levi Orban, Leonardo da Vinci, p. 17, Edizioni Futuro, Verona 1980.

[22] Il cognome della nobile famiglia dai documenti notarili risulta essere “Amieri”, ma essendo corruzione o variazione intenzionale di “Armieri”, la tradizione orale ne aveva tramandato la pronuncia quasi omofona di “Almieri”.

[23] Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte prima (I vol.), op. cit., p. 224. Questo è il resoconto stringato della trama del fatto, senza interpretazioni e interpolazioni, riportato dall’archivista della Misericordia Foresto Niccolai con la trascrizione della formula del Tribunale Ecclesiastico. Conoscendo questa trama da sempre, mi ha divertito leggere decine di versioni in cui sembra che nessun autore contemporaneo resista alla tentazione di fare aggiunte di fantasia, talvolta andando in contrasto con realtà storiche che non conosce. La “sepolta viva” ha ispirato nei secoli decine di romanzi e copioni teatrali, fino al primo film italiano sulla vicenda con Elsa Merlini e Amedeo Nazzari. Tra gli esempi in negativo vi è quello del sito “Ereticopedia” i cui autori si atteggiano a censori delle versioni in circolazione ma rivelano un’ignoranza imbarazzante: ad esempio, si legge che sul sito dove allora era la chiesa di Santa Reparata (siamo nel 1400!) sarebbe poi sorta Santa Maria del Fiore, la cui costruzione in realtà ebbe inizio l’8 settembre del 1296. In realtà la fonte alla quale hanno attinto dice “Santa Reparata” riferendosi al cimitero e non alla chiesa. Infatti, in quella parte della Piazza di San Giovanni, che include il Campanile di Giotto, sorgeva il cimitero di Santa Reparata. La chiesa era nata in epoca paleocristiana (intorno al IV sec.) e poi era stata inglobata nella fabbrica di S.M. del Fiore, all’interno della quale le ultime strutture superstiti di Santa Reparata furono eliminate nel 1375.

[24] Già allora si raccontavano casi di persone sepolte vive e trovate poi morte per asfissia nell’atto disperato di aprire la tomba.

[25] Non conoscendo questa leggenda e confondendo narrazioni letterarie e storia documentata, i compilatori di Wikipedia incorrono nell’errore di scrivere che la cultura popolare avesse identificato in Ginevra degli Almieri la ragazza ritratta da Leonardo: i contemporanei sapevano bene chi fosse Ginevra de’ Benci e che il maestro, amico di famiglia, fosse stato presso di loro a ritrarla dal vero; poi le generazioni successive conoscevano la tradizione dell’Anonimo Gaddiano che ho citato. La morte di Ginevra degli Almieri avviene 52 o 56 anni prima della nascita di Leonardo da Vinci.

[26] Nel Medioevo le canzoni o anche i lunghi poemi che cantavano storie edificanti, d’amore o di cronaca minuta, avevano la coppia pressoché fissa di un autore patrizio, ossia il Trovatore, e un esecutore borghese, ossia il Menestrello. Nella Firenze rinascimentale la tradizione era conservata, ma si era arricchita di nuove figure di musici e poeti di strada.

[27] Agostino Velletti, La Storia di Ginevra degli Almieri che fu sepolta viva in Firenze (a cura di Alessandro D’Ancona), Fratelli Nistri, Pisa 1863 (edizione in 250 copie sulla stampa antica). Il poemetto è stato letto per secoli e conosciuto soprattutto in Italia, come hanno testimoniato il Del Migliore e il Manni.

[28] Cfr. Franco Ciarleglio, La sposa resuscitata in Lo struscio fiorentino, p. 71, Edizioni Tipografia Bertelli, Firenze 2001.

[29] Franco Ciarleglio, La sposa resuscitata, op. cit., pp. 71-73.

[30] Per evitare il contagio l’avevano abbandonata, non portandole nemmeno il cibo; da questo potrebbe derivare la voce popolare secondo cui “il marito era troppo indaffarato negli affari per avere un minimo di riguardo verso la giovane moglie e lei ormai non mangiava quasi più ed usciva raramente dalle sue stanze” (Franco Ciarleglio, op. cit., p. 71).