Specchio della psiche e della
civiltà
GIUSEPPE
PERRELLA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 26 giugno
2021.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Dodicesima Parte)
24. Dallo spirito delle Logge alla
figura sacra più invocata e celebrata in Firenze. Il Leonardo anatomista è giunto all’esame dei
ventricoli cerebrali, nei quali mille anni prima si è creduto di poter trovare
traccia dell’anima, ma la cultura di Leonardo è diversa, e differenti sono le
sue aspettative. Non solo non ritiene, come i Padri della Chiesa, sufficiente
seguire le indicazioni degli anatomisti greci e si prefigge di seguire nuove
vie tecniche per superare gli ostacoli davanti ai quali si erano fermati i suoi
predecessori, ma ritiene anche necessario studiare prima più approfonditamente
le persone da vive, perché si è reso conto che un vivo non è semplicemente un
morto che ha ancora l’anima dentro di sé. Una consapevolezza che, da un lato può
averlo messo sulla via dei manoscritti di Galeno, all’epoca considerato un
precursore nello studio della fisiologia umana, e dall’altro può averlo
condotto a cercare modi e ragioni per distinguere lo spirito umano da un’anima –
oggi diremmo biologica – posseduta anche dagli animali.
Come abbiamo
fatto per comprendere la cultura rinascimentale del corpo, incamminandoci in un
percorso che ci ha portato fino alla teologia del Corpus Domini, così
cercheremo ora di approfondire la concezione dello spirito umano attraverso il
vissuto dell’esperienza pubblica, la riflessione spirituale sulla figura sacra
più invocata e celebrata e, infine, con una vicenda esemplare con la quale ha
dovuto fare i conti lo stesso Leonardo.
La Firenze
rinascimentale ha conosciuto il grado più elevato di vicinanza e scambio tra i
cittadini di ogni ceto e condizione, come testimoniato dal massimo sviluppo
delle Logge[1], strutture architettoniche che consentivano alle
famiglie più abbienti di uscire stabilmente dal perimetro domestico,
affacciarsi all’esterno ed entrare in mutuo scambio con i protagonisti di
piazza della vita cittadina[2]. Come in vetrina, le famiglie si esponevano su
questi affacci di spazio esterno per cerimonie, giochi o svaghi; alcuni per
cercare consenso nell’esposizione di tesi teologiche o filosofiche, altri alla
ricerca di pubblico per esibizioni teatrali o musicali, altri ancora per
reclutare partecipanti alle competizioni basate sulla creazione estemporanea di
versi o, infine, solo per prendere aria d’estate o presentarsi all’appuntamento
quotidiano con passanti abituali.
In un
documento del 1474 troviamo un esempio significativo del ruolo sociale svolto
dalla Loggia dei Rucellai[3] in occasione della cerimonia di nozze di Bernardo Giovanni
Rucellai con Nannina di Piero de’ Medici: l’accorrere dei Fiorentini per
assistere alla celebrazione che aveva luogo sulla Loggia, indusse le famiglie a
trasformare l’evento in una festa di popolo protratta per tre giorni, con “ben
cinquecento invitati a tavola sotto la loggia e sulla prospiciente piazza,
indaffarati a divorare e a brindare alla salute degli sposi”[4].
Ho cercato
di individuare nelle trattazioni storiche orientate all’analisi della civiltà, del
costume e delle tradizioni popolari rinascimentali, quale fosse la principale fonte
di aggregazione.
Il
principale elemento culturale di riconoscimento identitario, in grado di
superare ogni barriera di parte, fazione e ceto sociale, di mettere d’accordo francescani,
domenicani, chierici e prelati di ogni appartenenza con il popolo più semplice,
è il riconoscimento in Maria del modello sublime di bellezza della bontà
che, attraverso l’umiltà dell’obbedienza, la povertà per amore del prossimo e
la purezza per amore di Dio, realizza l’esempio più alto di vita dedicata all’attuazione
della volontà del Padre, dopo quello dello stesso Cristo.
La riflessione
teologica di quegli anni, con effetti di influenza sulla vita culturale
cittadina, è principalmente focalizzata su due interventi divini nella dimensione
umana necessari all’Incarnazione: l’Annunciazione attraverso le parole
del messaggero angelico riportate da San Luca evangelista, che determina l’entrata
nella coscienza di Maria, quale creatura, della comunicazione del piano divino
sulla sua vita per la Redenzione dell’umanità; e la Concezione senza peccato
originale, e perciò Immacolata, di Maria nel seno della madre Sant’Anna,
veneratissima dai Fiorentini[5].
Gli storici
e i cristiani di confessione cattolica di oggi sono abituati a pensare all’Immacolata
Concezione di Maria come a un dogma proclamato da Pio IX l’8 dicembre del 1854
con la bolla Ineffabilis Deus, in una
temperie collegata con le apparizioni di Lourdes del 1858[6].
Ma è
documentata quattrocento anni prima, in Firenze, l’origine teologica,
devozionale e liturgica della celebrazione del mistero, come si legge in queste
interessanti annotazioni: “La Repubblica Fiorentina il 12 aprile 1440 faceva
pubblicare un decreto, col quale si stabiliva che l’8 dicembre di ogni anno
fosse «Feriato Solenne» e che la Signoria si recasse a fare l’offerta in Santa
Maria del Fiore. Nel 1448 la Signoria stanziava 3500 fiorini d’oro per erigere,
in Firenze, una chiesa in onore dell’Immacolata Concezione, la quale fu edificata
solo nel 1539, da una Congregazione di preti sorta nel 1515 in via dei Fibbiai”[7].
Si
comprende dunque l’attualità per Leonardo della questione del concepimento senza
peccato quale requisito per ospitare il divino; tematica che lui studia come personificazione
della purezza.
I
documenti cinquecenteschi consentono di dedurre, dopo la morte di Leonardo, una
lieve riduzione del fervore popolare per l’Immacolata, che suggerì di correre
ai ripari: “Nel 1527, al tempo del Gonfaloniere Niccolò Capponi, fu rinnovato
il decreto del 1440 e, inoltre, comandato che nel giorno della Concezione tutti
i negozi e le botteghe di ogni genere rimanessero chiusi, pena la multa di 10
fiorini d’oro”[8].
Nella
trasmissione del logos l’arte figurativa è seconda solo alle voci che si
levano dai pulpiti e sa di avere la grande responsabilità di contribuire all’evangelizzazione
attraverso la forza affettiva ed emozionale di un linguaggio analogico universale.
Nella bottega del Verrocchio, che pure seguiva le passioni del mondo realizzando
gioielli e accessori di abbigliamento, è massimamente sentita questa missione,
che si esprime con caratteri diversi nei suoi tre maggiori allievi: Pietro
Perugino, che trasferisce la devozione per la Vergine Maria al suo allievo
Raffaello Sanzio, Sandro Botticelli, che affida alla realizzazione estetica
della bellezza la missione di elevare la mente ai valori dello spirito, e
Leonardo da Vinci che riflette sui rapporti più profondi e teologici tra
sentimenti religiosi e arte figurativa.
L’Annunciazione
e la purezza dell’Immacolata sono due tematiche importanti nella
riflessione e nell’arte di Leonardo, e costituiscono due riferimenti cruciali
per l’analisi di tutto lo studio condotto negli anni per la rappresentazione
della figura della Madre di Dio.
Il capolavoro
di raffinatezza, precisione, delicatezza, stile, eleganza e atmosfera
spirituale che è l’Annunciazione degli Uffizi è stato possibile grazie
alla geniale intuizione di Leonardo: per trasmettere i valori che intendeva
comunicare sarebbe stato necessario evocare nell’osservatore uno stato mentale,
un particolare modo della coscienza che avrebbe aiutato a sentire, più
che a ragionare, per percepire il soprannaturale. E, per questo fine, si rende
conto che ogni particolare del quadro, anche il dettaglio più piccolo, avrebbe
dovuto prendere parte in modo coerente alla realizzazione dell’effetto di
evocazione: dall’intonazione del dipinto alla gestualità delle due figure
sacre, dal profilo estetico di alberi dello sfondo, curati con taglio artistico
dai giardinieri, alle simmetriche forme scolpite del sarcofago che sostiene il
leggio, tutto avrebbe dovuto trasmettere preziosa semplicità.
È questo l’insegnamento
di Dio – secondo Leonardo – quando ci offre il modello di una fanciulla
sedicenne non compromessa con alcuna delle idolatrie del mondo e già resa unica
dal concepimento senza peccato, per indicarci la preziosa semplicità del
fiat, ossia dell’obbedienza assoluta alla legge dell’amore.
Nonostante
a quell’epoca fosse ancora molto giovane, il Genio vinciano è già padrone di
alcuni mezzi del linguaggio figurativo che oggi descriviamo in termini di
psicologia della percezione. Ad esempio, aveva compreso che, per generare l’effetto
evocativo d’ambiente, non doveva essere possibile con un solo colpo d’occhio
abbracciare le due figure: la distanza da interporre fra l’angelo e Maria
doveva essere tale da costringere l’occhio a percorrere uno spazio, quello dell’atmosfera
del dipinto, nel trascorrere da un soggetto all’altro: dal viso del messaggero
a quello della fanciulla, da uno sguardo all’altro, dalla mano dell’uno a
quella dell’altra.
Lo
sviluppo secondo il diametro orizzontale della scena è sfruttato dal giovane
talento in maniera davvero magistrale: la lunga linea di cesura del parapetto
che separa, e allo stesso tempo congiunge la scena al mondo esterno, si interrompe
all’altezza del viso e della mano benedicente dell’angelo, così che possano risaltare
sullo scuro del fondo, e indica tre aree di focalizzazione, le due principali,
dell’angelo genuflesso e dell’Annunziata, e quella secondaria del sarcofago scolpito[9].
Oltre ad essere
stato studiato approfonditamente con disegni e prove di colore, il dipinto
aveva avuto una sua prova generale nell’Annunciazione del Louvre, che
faceva parte della predella dell’opera Madonna di Piazza commissionata a
Lorenzo di Credi, collega di Leonardo alla bottega del Verrocchio.
Leonardo
disegna molte Madonne, non solo per la preparazione di dipinti, anche come bisogno
personale di studio del soggetto; sono tante che si potrebbe dedicare un’intera
monografia a questo argomento, seguendo con un’analisi dell’evoluzione del
disegno gli sviluppi interiori che hanno accompagnato l’acquisizione di
maestria nell’uso del linguaggio grafico e tonale, per capire ciò che sentiva e
parlarci della Madre di Dio.
Tra il
1475 e il 1480 la maggior parte dei disegni è costituita da studi di Madonne
con Bambino, ma non si tratta di riproduzioni in cui si ferma a rendere la
sacrale maestà del viso come nel prototipo tanto caro ai Fiorentini, costituito
dall’icona dell’Arte dei Medici e degli Speziali, ma di indagini col mezzo della
grafica sulle dinamiche espressive che rendono lo spirito di una donna, che avrà
avuto in sé alcune forme della tenera spontaneità che Leonardo poteva cogliere
dal vero. E proprio in alcuni di questi disegni non rifiniti, che sono poco più
di semplici schizzi, sono evidenti aspetti di una naturalezza straordinaria,
come nella Madonna che porge un melograno a un Gesù Bambino posto su un cuscino,
su di un tavolo, ma accomodato come le stesse in grembo.
Nel 1478
Leonardo riceve la prima commissione personale, per conto della Signoria,
firmando un contratto di soli 22 fiorini per realizzare un’opera per la
Cappella di San Bernardo in Palazzo Vecchio, ma non si occupò mai di impostare
l’opera: “Cominciò anzi a lavorare su altri due dipinti della Vergine che non
gli erano stati commissionati, ma che rispondevano di più a un suo interesse”[10]. In uno dei quaderni troviamo questa annotazione: “…bre 1478 inchominciai le due
Vergini Marie”[11]. Una delle due è sicuramente la Madonna Benois[12], detta anche la Madonna del fiore, perché
serra tra indice e pollice un fiore che il Bambino Gesù cerca di afferrare,
intento a guardarsi la mano nel tentativo di presa, con quell’atteggiamento del
capo tipico dei bambini così piccoli. Mi permetto di consigliare il lettore di
procurarsi un’immagine di questa Madonna per verificare quanto affermo: non è
semplicemente spontanea e vera nel sorriso e nella gestualità, ma ti accorgi
che sta parlando; si vede che dice qualcosa al suo bambino. Una cosa che non si
era mai vista in pittura.
Studiando la
madre sacra, la maternità, la donna, Leonardo è riuscito a rendere lo spirito,
che non è semplicemente un corpo che vive, perché sai che ha l’anima e, in
pittura, lo vedi dal fatto che ha gli occhi aperti e tiene spontaneamente una
postura, ma è quell’essenza che si rivela come qualità dell’essere che evoca
sentimenti.
La seconda
delle due Vergini Marie dell’annotazione del 1478 era stata identificata da
alcuni con la Madonna del garofano dell’Alte Pinakothek
di Monaco, ma questa ipotesi è stata oggi definitivamente abbandonata e questo
dipinto è stato datato intorno al 1473[13].
Nell’Adorazione
dei Magi[14], commissionata dai monaci di San Donato a Scopeto e
rimasta incompiuta alla partenza per Milano, Leonardo adotta la soluzione
ideata da Sandro Botticelli, consistente nel porre la Sacra Famiglia al centro
e i Magi alla base di un’ideale piramide che ha come vertice la figura di
Maria. I lunghi e accurati studi testimoniati dai numerosi disegni, primo fra
tutti quello custodito nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi,
consentono una perfetta organizzazione dello spazio in funzione dell’effetto
percettivo dei valori simbolici e compositivi, ma ci si rende conto che il vero
fulcro estetico dell’Adorazione dei Magi è la giovane Madonna che
ricorda nel viso la fanciulla dell’Annunciazione.
La forma quadrangolare
e quasi quadrata della tavola ci consente di tracciare idealmente le diagonali
fra angoli opposti, e accorgerci che il punto di incontro corrisponde all’area
occupata dal capo della Vergine; si legge: “L’impostazione del quadro è
assolutamente originale, ma estremamente rigorosa. Le figure della Madre col
Bambino e della folla adorante sono racchiuse in un triangolo il cui centro, la
Vergine, è il punto più luminoso”[15].
L’indagine
leonardiana su Maria si comprende meglio alla luce dei suoi studi sulla donna,
sviluppati attraverso l’osservazione anatomica e le deduzioni funzionali. Il
corpo della donna è matrice e origine universale della vita naturale; il
corpo inviolato di Maria è sede dell’Incarnazione e, grazie alla sua condizione
virginale, ha potuto generare colui che ha donato a tutti la possibilità della vita
eterna.
Allo
studio anatomico dell’apparato riproduttivo Leonardo dedica un arco temporale
di un decennio, durante il quale passa dal semplice interesse per la fisiologia
del coito in vivo a quei disegni dell’utero gravido, delle ovaie e delle altre
strutture degli annessi, che sono fra i più ammirati del corpus anatomico. Lo
studio dell’embriologia, pur condotto in massima parte sui bovini, si poté
avvalere della dissezione di un feto di circa sette mesi, estratto da una donna
morta in gravidanza: “I disegni relativi ce lo mostrano, infatti, da diversi
punti di vista, rannicchiato all’interno dell’utero con il cordone ombelicale che
Leonardo dice di essere «della lunghezza del putto ad ogni sua età»”[16].
25. Protetta dal bisogno antropologico
di mistero sopravvive in Firenze una storia rinascimentale. Per comprendere meglio il senso che Leonardo
attribuiva ai suoi studi anatomici, e particolarmente a quelli sul cervello, è necessario
considerare il suo interesse per tutto ciò che consentisse di rilevare
differenze tra la vita e la morte: quando esplora il corpo del centenario che
muore improvvisamente mentre parla con lui senza alcun malore, cerca in tutte
le differenze materiali fra la morte e la vita delle tracce e dei segni dello
spirito o soffio vitale.
Non
prestava fede ai tanti racconti popolari su fantasmi, spiriti disincarnati
aleggianti da secoli, trasmigrazioni di anime e reincarnazioni, ma non
escludeva la possibilità di indagare le ragioni all’origine di quelle storie, o
anche delle forti suggestioni personali, come quelle del boia che raccontava di
aver visto come un piccolo soffio di un vapore lieve, leggero e trasparente
uscire dal corpo di un uomo che aveva appena giustiziato. Una specie di pneuma,
appunto, come quello di cui avevano scritto gli antichi e i Padri della Chiesa,
visto da un uomo che non sapeva nulla di tali tesi.
Il Genio
vinciano, abituato fin dall’infanzia a fidarsi dell’uso della ragione applicata
all’esperienza, riconosce facilmente il ricorso all’irrazionale per far fronte
a paure profonde e inconfessabili, e comprende che i tropi popolari di antiche
credenze sopravvissute come superstizioni possano eccitare la fantasia creativa
per dar corpo alle paure e ottenere condivisione e supporto per le proprie
ansie. Tuttavia, quando i testimoni di un fatto quanto meno singolare sono
ancora vivi e da questo fatto ne è già nata una leggenda, che ha dato luogo a
una credenza estesa perfino a qualche membro del clero, non si può rimanere indifferenti.
E se, tuo malgrado, per qualcosa che ti riguarda sei investito dall’onda
emotiva suscitata da questa credenza, quanto meno devi occupartene. Così accade
a Leonardo. Del fatto dirò più avanti, qui mi limito a ricordare che si diceva,
e si racconta ancora oggi, che nella notte del primo martedì di ogni mese in
quell’angusto spazio non molto mutato da allora e identificato con la piccola
Piazza del Giglio, dove si respira più Medioevo che Rinascimento, appare il
fantasma di una giovane donna bellissima.
Amerigo de’
Benci, nobile e ricco amico del notaio Ser Piero da Vinci, decide di lasciare
le case della sua famiglia site oltre il Ponte alle Grazie per trasferirsi nel
cuore della vita culturale fiorentina: compra quello che ammiriamo tuttora come
Palazzo de’ Benci[17], acquisendo le proprietà circostanti, subito di
fronte alla Loggia dei Peruzzi, famiglia illustre che aveva ospitato in casa
propria l’Imperatore d’Oriente al tempo del Concilio[18]. Una delle ragioni del trasferimento di Amerigo
Benci è una figliola adolescente di straordinaria precocità intellettuale,
coltissima e raffinata, che sarebbe diventata una degna protagonista dell’arcadia
medicea.
Leonardo,
in ottimi rapporti con la famiglia Benci, diviene poi amico del figlio di Amerigo,
Giovanni Benci, al quale lascerà in custodia, come sappiamo da una sua
annotazione autografa, un libro e il suo mappamondo[19]. Ma, prima di questi avvenimenti, Amerigo presenta
la sua amata figliola Ginevra a Leonardo, e gli chiede di farle il ritratto.
La ragazza
aveva un fascino particolare, suggestivo e per qualcuno addirittura inquietante,
sia per uno spirito e uno stile da donna matura in un corpo appena adolescente,
sia perché, ancora giovanissima, Lorenzo il Magnifico, innamorato di una sua
zia, Bartolomea de’ Nasi, le aveva dedicato con grande risonanza pubblica due
sonetti delle sue Rime spirituali: “Segui, anima devota” e “Fuggendo Lot”[20].
È
probabile che il rapporto di amicizia tra la modella diciassettenne e il
pittore ventiduenne sia nato proprio nel 1474, durante le sedute di posa per il
ritratto. Leggiamo dall’Anonimo Gaddiano, una delle più antiche fonti di
notizie sul Genio vinciano: “Ritrasse Leonardo in Firenze dal naturale la
Ginevra di Amerigo Benci, la quale tanto bene finì che non il ritratto ma la
propria Ginevra pareva”[21].
Il
ritratto di Ginevra de’ Benci, appartenuto ai principi di Liechtenstein e ora
alla National Gallery of Art di Washington, è riprodotto in tutte le
biografie di Leonardo e costituisce un interessantissimo termine di paragone con
le Madonne: lo studio delle differenze tipologiche dei particolari aiuta a
comprendere il modo in cui il linguaggio pittorico rende gli elementi trascendenti.
Al tempo
di questo ritratto, Leonardo è avvicinato da tanti che gli chiedono come sia la
Ginevra de’ Benci vista da vicino nella sua realtà quotidiana; e qualcuno gli
racconta una storia avvenuta nel 1400, più di settant’anni prima, e che lui
aveva già sentito menzionare come leggenda popolare o favola dal vero, di
quelle che si raccontano dinanzi al fuoco nelle lunghe sere d’inverno.
Gli si
dice anche che è necessario che lui conosca questa storia, perché i Benci sono
persone strane per tante ragioni: non si conosce la provenienza della loro
enorme fortuna, Amerigo come il suo babbo lavora in Svizzera, sta sempre sulle
sue, frequenta solo persone di altissimo rango e, quando si è trasferito in
centro, si è presentato in società con questa fanciulla, Ginevra, come sua
figliola, ma nessuno l’aveva mai veduta prima, e nessuno sa chi sia la madre.
Ecco la
storia accaduta settantaquattro anni prima, come emerge dai documenti: Ginevra della
nobile famiglia degli Almieri o Amieri[22], pur essendo in segreto legata a un giovane del
popolo, Antonio Rondinelli, fu costretta dall’autorità paterna ad andare in sposa
al nobile Francesco Agolanti. “Dopo quattro anni di matrimonio incominciò a
sentirsi male e un giorno presa da malore fu sepolta nel tumulo di famiglia
presso il Campanile di Giotto. Svegliatasi Ginevra dal letargo, ebbe la forza
di alzare la lapide e di andare a casa del marito in Via dell’Oche, angolo Via
degli Adimari, il quale vedendola e ritenendola un fantasma la respinse. La
stessa sorte le toccò andando dal padre e da uno zio che abitavano nelle
adiacenze della loggia di S. Bartolomeo (una chiesa demolita nel secolo XVII).
Respinta dai parenti, corse a casa di Antonio Rondinelli, il suo vero amore,
che la ristorò, la curò, la sposò. Più tardi l’Agolanti, saputala viva, ricorse
al Tribunale Ecclesiastico e il Vicario del vescovo fiorentino sentenziò: «che
per essere stato disciolto il primo matrimonio dalla morte, poteva la donna
legittimamente passare ad un altro marito»”[23].
Ma la
versione che circolava allora era ben diversa, soprattutto in ragione del fatto
che la morte apparente, o addirittura il concetto di coma reversibile,
non appartenevano certo alla cultura popolare del XV secolo: si diceva che
Ginevra degli Almieri fosse realmente morta e tumulata. D’altra parte chi
potrebbe dall’interno di un’angusta tomba rimuovere la lapide e venire fuori?[24] E poi, se fosse stata viva e capace di andare di
persona a casa dal marito, come le sarebbe stato possibile non essere
riconosciuta? E, ammesso che il marito abbia finto di non riconoscerla, perché
non avrebbero dovuto riconoscerla né il padre, né lo zio, in case e circostanze
diverse? Infine, perché Francesco Agolanti quando sente dire da altri che la
moglie è viva e risposata fa ricorso al Tribunale Ecclesiastico?
Le
spiegazioni possibili sono tante, ma la convinzione popolare era che l’anima
disincarnata di Ginevra fosse stata condannata a scontare sulla terra le sue
colpe e che fosse entrata nel corpo della donna che aveva sposato Antonio Rondinelli
e poi, morta quella, nel corpo dell’enigmatica Ginevra de’ Benci[25]. E così fu detto a Leonardo da Vinci.
Non è dato
sapere se il Genio abbia rifiutato quelle fole con assoluto distacco,
condannando la pratica irrazionale di confabulazione eretica, se invece le
abbia respinte con una serena e sorridente distanza interiore, oppure se ne sia
rimasto in qualche modo impressionato. È certo che in molti angoli della città,
accompagnandosi con liuti, ghironde e altri cordofoni a ruota come la symphonia
adoperata dai Francesi per le chansons de geste,
cantori, menestrelli e altri musici cantano quasi ogni giorno l’incredibile
vicenda della bellissima sepolta viva, in versioni cangianti per sequenze
armoniche e varietà dei colori romantici[26].
In quegli
anni, Agostino Velletti aveva raccolto i vari spunti narrativi, componendo un
poemetto intitolato La Storia di Ginevra degli Almieri che fu sepolta viva
in Firenze[27]; in prevalenza si cantava che Ginevra fosse svenuta
alla vista dell’amato, creduta morta e ritornata al mondo dei vivi per coronare
il suo sogno d’amore. Ma si raccontava anche la sinistra e lugubre storia di un
fantasma: di notte appariva Ginevra come anima in pena, avvolta in un sudario, lungo
il tragitto che aveva percorso per essere riaccolta tra i vivi. In ogni caso, il
rilievo della vicenda per la vita pubblica è testimoniato dalla toponomastica: Via
della Morta è la denominazione data alla via percorsa da Ginevra degli Amieri e
conservata ancora oggi nello stradario cittadino.
Prima di
tornare a Leonardo da Vinci, desidero fare qualche considerazione su alcune
versioni del racconto e proporre una chiave interpretativa che mi sembra
riportare a ragione gli aspetti meno plausibili della trama.
La Ginevra
che esce dalla tomba e si aggira coperta da un lenzuolo come un fantasma, delle
primissime versioni, deve aver sollevato l’obiezione che i Fiorentini non avvolgevano
come gli Ebrei al tempo di Gesù i defunti in un sudario. Dunque, i solerti
autori decidono di adeguare questo dettaglio del racconto all’uso fiorentino
del tempo, di rivestire con l’abito nuziale una giovane moglie che fosse morta
prima di diventare madre. Allora sarà l’abito bianco a farla scambiare per un
fantasma dal marito, dal padre e dallo zio. Perché Ginevra si sente male? La
vera ragione, di cui dirò presto, è poco romantica, allora si opta per una
grave inappetenza causata dall’essere trascurata dal marito[28]. In tal modo si accrescono le simpatie per l’eroina,
alienandole al consorte, così che il lettore o l’ascoltatore della storia cantata
possa rimanere dalla parte della protagonista anche nel finale.
Un altro
ostacolo alla plausibilità era l’uscita dalla tomba di famiglia in cui era
stata tumulata, e dunque si provvede a cambiare la prima versione, basata sul
fatto che gli Amieri, così come gli Agolanti, non venivano interrati in casse
di legno, e si indica questa modalità di sepoltura che avrebbe consentito,
almeno teoricamente, la riapertura. Infatti, nelle rappresentazioni
pittoriche delle epoche successive si rappresenta Ginevra che solleva il
coperchio di una bara di legno. Ma qualcuno, per prudenza, era andato oltre: “…adagiata
in una bara priva di coperchio in attesa di seppellirla il giorno seguente. Era
la notte del primo martedì del mese e all’improvviso Ginevra aprì gli occhi e
si risvegliò”[29]. E così la conversione da
inquietante fantasma che esce dalla tomba in “bella addormentata nel bosco” è
compiuta.
La
chiave interpretativa che ci consente di conferire senso agli aspetti meno
verosimili della trama è l’epidemia di peste. Proprio per ricondurre la
malattia di Ginevra a una patologia causata da Pasteurella pestis,
qualche storico ha proposto di spostare la datazione degli eventi dal 1400 al
1396, quando è documentata una grave pestilenza in Firenze. Si può, tuttavia,
conservare la data originaria, in quanto nel 1400 si era registrata una recrudescenza
della temuta infezione mortale. I Fiorentini, come mi è capitato di ricordare
in altre occasioni, temevano molto il contagio e, pur non conoscendo i microrganismi
patogeni che sarebbero stati scoperti nel XIX secolo, mettevano in atto misure
per evitare ogni contatto, anche mediato da oggetti inanimati, con gli
appestati. I commercianti, nel solo sospetto che i clienti potessero pagare con
monete contaminate, imponevano di versare il pagamento in recipienti contenenti
alcool e aceto; le ritiravano poi adoperando molle da fuoco e le risciacquavano
ben bene prima di toccarle. Gli ammalati venivano isolati e tutti gli indumenti
personali e gli effetti letterecci bruciati.
Ginevra
aveva contratto la peste ed era stata condotta in isolamento[30]. Credendola morta, era stata trasferita
nella parte del cimitero di Santa Reparata riservato agli appestati; per
evitare il contagio da contatto, gli appestati erano trasferiti avvolgendoli in
grandi lenzuoli, e così deve essere stata collocata Ginevra nella bara. Le casse
da morto dei defunti per peste rimanevano aperte fino all’arrivo dei familiari,
che dovevano procedere all’identificazione, necessaria per la cristiana
sepoltura e la certificazione legale dell’avvenuto decesso. In tal modo si
spiega sia il “sudario”, adottato come unico possibile indumento alla ripresa
della coscienza, sia l’uscita da una bara non chiusa.
Considerata
l’assoluta improponibilità come veridica della storia di un marito, un padre e
uno zio che d’un tratto non riconoscono più la loro congiunta, la peste spiega
cosa sia realmente accaduto: non si è trattato di un mancato riconoscimento, ma
di un mancato accoglimento in casa per paura del contagio. Antonio Rondinelli,
evidentemente anche sostenuto dal suo sentimento per Ginevra, affronta il rischio
di morte, e la sua audacia è premiata. Ginevra, che era entrata nella “morte
sociale” di tutti gli appestati, ritorna realmente alla vita con la guarigione.
A questo
punto, passato il rischio del contagio, Francesco Agolanti per tentare di
recuperare la moglie si rivolge al Tribunale Ecclesiastico, e la sentenza che
abbiamo letto sembra quasi dire: hai continuato a crederla morta negandole l’identità;
ebbene, allora è morta davvero e da rediviva ha un’identità diversa.
[continua]
L’autore della
nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la
correzione della bozza e invita alla
lettura degli scritti di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-26 giugno 2021
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presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio
2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale
non-profit.
[1] Si è scelto di conservare la
maiuscola come in antico per indicare questa forma architettonica per distinguerla
dalle semplici logge, pur comuni in Firenze come in tutta l’Italia centro-settentrionale,
costituite da un fondo con apertura sulla strada, protetta da una balaustra o
parapetto e generalmente adibite ad attività commerciali.
[2] La progressiva chiusura delle
Logge, fin quasi alla scomparsa del secolo successivo, testimonia l’involuzione
sociale.
[3] Al tempo del capostipite
Alamanno del Giunta, la famiglia era già benestante e commerciava in tessuti
con l’Oriente, ma la sua grande fortuna ebbe un’origine accidentale, secondo un
racconto dell’aneddotica storica: Alamanno, sulla via del ritorno da un viaggio,
scese da cavallo per un bisogno fisiologico e orinò su un lichene, che divenne
di un bel colore viola. Il colore si rivelò ottimo per tingere i tessuti e
resistente; così piantarono il lichene in Firenze (Orti Oricellari)
e trovarono il modo per sviluppare con una reazione acida il viola in quantità
industriali. I sovrani nordafricani e mediorientali, così come tanti nobili
europei, compravano il panno viola per farne abiti dal colore insolito, facendo
la fortuna della famiglia, che cambiò il nome in Oricellari,
poi ingentilito in Rucellai.
[4] Cfr. Foresto Niccolai, Bricciche
fiorentine – parte seconda (II vol.) II ed., p. 139, Tipografia Coppini,
Firenze 1996.
[5] La celebrazione della festività
di S. Anna si fa risalire alla cacciata del tiranno Gualtieri di Brienne,
sedicente “Duca di Atene”, il 26 luglio del 1343 da parte del popolo fiorentino,
che avrebbe avuto la meglio sul tiranno protetto dal suo esercito mercenario,
grazie all’intervento della santa. La chiesa di Orsanmichele le fu dedicata per
ringraziamento.
[6] Si sono lette in passato anche interpretazioni
ideologiche di militanza “ateistica” relative all’istituzione del dogma come “creazione”
della teologia vaticana ottocentesca al servizio di interessi connessi al
particolare momento storico.
[7] Foresto Niccolai, Bricciche
fiorentine – parte prima (I vol.) IV edizione, p. 139, Tipografia Coppini,
Firenze 1997.
[8] Foresto Niccolai, op. cit.,
idem. Si legge poi: “Ogni anno gli Eccelsi Signori dovevano far celebrare una
messa solenne nella Chiesa Cattedrale nella festa dell’Immacolata e distribuire
2 doti di L. 100 a ragazze da marito e 100 lire a monasteri di monache mendicanti”
(ibidem).
[9] Verrocchio aveva scolpito su
commissione dei Medici, per la sagrestia vecchia di San Lorenzo, un sarcofago
che Leonardo ebbe per modello, studiandone il ricercatissimo dettaglio e
inserendolo come particolare prezioso, per la sua raffinata bellezza. Questa è
la ragione della presenza di un elemento così insolito al posto di un semplice
tavolo per reggere il leggio.
[10] Silvana Levi Orban, Leonardo
da Vinci, p. 19, Edizioni Futuro, Verona 1980.
[11] Silvana Levi Orban, op. cit., idem.
[12] Il capolavoro, così detto perché
appartenuto a lungo alla famiglia Benois, è un olio
su tavola (poi trasportato su tela) di soli 48 x 31 cm, esposto al Museo
Ermitage di San Pietroburgo.
[13] Sulla Madonna del garofano
(62 x 47,5 olio su tavola) ho molti dubbi. Il Bambino – mi sbilancio – sicuramente
non è di Leonardo, perché gli errori grossolani nel disegno, a tratti rivelati
dalle luci sbagliate nel modellato, non possono appartenere nemmeno all’ultimo
garzone di bottega del Verrocchio. Qualcuno ha attribuito gli errori a un
cattivo restauro antico. Molti dubbi ho anche sulla recente identificazione con
la Madonna della caraffa descritta da Vasari come opera per Papa
Clemente VII: il piccolo vasetto trasparente al margine in basso, mi sembra un
particolare di complemento che non corrisponde a queste parole: “Contrafece una caraffa piena d’acqua con alcuni fiori
dentro, dove oltre la maraviglia della vivezza, aveva
imitato la rugiada dell’acqua sopra, sì che ella appariva più viva che la vivezza”
[Vasari, Le vite…, 1568]. Insieme con gli altri particolari mi fa
pensare ad elementi leonardeschi posti insieme, quali le maniche dell’abito
della Madonna, il panneggio copiato, i monti dello sfondo, ecc., per caratterizzare
in tutti i modi il dipinto come opera del maestro di Vinci. Il collo di questa
Madonna, oltre che troppo ampio, è inserito male sulle spalle e sul torace: si
tratta di un “fondamentale” di disegno della figura che Leonardo aveva già da bambino
e non poteva aver perso d’un tratto: non avrebbe sopportato di tenere lo
sguardo su quell’errore fastidiosissimo, e se lo avesse compiuto, poniamo un
apprendista, lo avrebbe corretto immediatamente. Gli storici dell’arte che
hanno attribuito questa Madonna a Leonardo non sanno disegnare e non hanno
sensibilità ed esperienza estetica sufficienti a compensare il loro difetto. È
ragionevole ipotizzare che l’autore possa aver adoperato un cartone di Leonardo
per lo spolvero delle sagome e dello spartito, e che nell’esecuzione abbia avuto
a disposizione se non un originale, qualche altra opera del maestro.
[14] Un olio su tavola (2,46 m x 2,43
m) rimasto in abbozzo e attualmente esposto alla Galleria degli Uffizi.
[15] Silvana Levi Orban, Leonardo
da Vinci, p. 23, Edizioni Futuro, Verona 1980.
[16] Carlo Pedretti, L’Anatomia,
in Leonardo – Arte e Scienza, p. 124, Giunti, Firenze 2000.
[17] In Via de’ Benci n. 16 davanti
all’Arco dei Peruzzi. La notizia della Loggia dei Peruzzi dirimpetto è del
Vasari. Il padre di Amerigo, Giovanni Benci, era stato, per conto di Cosimo il
Vecchio, direttore della filiale svizzera di Ginevra della compagnia medicea, e
poi direttore generale di tutte le filiali. Amerigo da banchiere voleva
diventare mecenate.
[18] Secondo alcuni storici esisteva
un grado di parentela con i Peruzzi perché ritengono Amerigo figlio di Ginevra
Peruzzi (Alessandrini, Glori).
[19] È stato poi ricostruito che Leonardo,
prima di partire per Milano, lascia presso Giovanni Benci (perché Amerigo muore)
oltre al famoso mappamondo che aveva realizzato per mostrare la collocazione
dell’America tra il vecchio continente e l’Asia, molti libri, strumenti di lavoro,
pietre preziose e, come già indicato da Giorgio Vasari, l’Adorazione dei
Magi incompiuta [Yves Renouard, Eugenio Ragni, BENCI
Amerigo in “Dizionario Biografico degli Italiani”, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, 2021].
[20] È Francesco Guicciardini a raccontare
di questo amore di Lorenzo (Storie Fiorentine); i sonetti si possono
leggere in Lorenzo de’ Medici, Opere, vol. II (a cura di Attilio Simioni),
Laterza, Bari 1914.
[21] Cit. in Silvana Levi Orban, Leonardo
da Vinci, p. 17, Edizioni Futuro, Verona 1980.
[22] Il cognome della nobile famiglia
dai documenti notarili risulta essere “Amieri”, ma essendo corruzione o
variazione intenzionale di “Armieri”, la tradizione orale ne aveva tramandato
la pronuncia quasi omofona di “Almieri”.
[23] Foresto Niccolai, Bricciche
fiorentine – parte prima (I vol.), op. cit., p. 224. Questo è il resoconto
stringato della trama del fatto, senza interpretazioni e interpolazioni,
riportato dall’archivista della Misericordia Foresto Niccolai con la trascrizione
della formula del Tribunale Ecclesiastico. Conoscendo questa trama da sempre,
mi ha divertito leggere decine di versioni in cui sembra che nessun autore contemporaneo
resista alla tentazione di fare aggiunte di fantasia, talvolta andando in
contrasto con realtà storiche che non conosce. La “sepolta viva” ha ispirato nei
secoli decine di romanzi e copioni teatrali, fino al primo film italiano sulla
vicenda con Elsa Merlini e Amedeo Nazzari. Tra gli esempi in negativo vi è
quello del sito “Ereticopedia” i cui autori si
atteggiano a censori delle versioni in circolazione ma rivelano un’ignoranza
imbarazzante: ad esempio, si legge che sul sito dove allora era la chiesa di
Santa Reparata (siamo nel 1400!) sarebbe poi sorta Santa Maria del Fiore, la
cui costruzione in realtà ebbe inizio l’8 settembre del 1296. In realtà la
fonte alla quale hanno attinto dice “Santa Reparata” riferendosi al cimitero e
non alla chiesa. Infatti, in quella parte della Piazza di San Giovanni, che
include il Campanile di Giotto, sorgeva il cimitero di Santa Reparata. La chiesa
era nata in epoca paleocristiana (intorno al IV sec.) e poi era stata inglobata
nella fabbrica di S.M. del Fiore, all’interno della quale le ultime strutture
superstiti di Santa Reparata furono eliminate nel 1375.
[24] Già allora si raccontavano casi
di persone sepolte vive e trovate poi morte per asfissia nell’atto disperato di
aprire la tomba.
[25] Non conoscendo questa leggenda e
confondendo narrazioni letterarie e storia documentata, i compilatori di Wikipedia
incorrono nell’errore di scrivere che la cultura popolare avesse identificato in
Ginevra degli Almieri la ragazza ritratta da Leonardo: i contemporanei sapevano
bene chi fosse Ginevra de’ Benci e che il maestro, amico di famiglia, fosse stato
presso di loro a ritrarla dal vero; poi le generazioni successive conoscevano
la tradizione dell’Anonimo Gaddiano che ho citato. La morte di Ginevra degli
Almieri avviene 52 o 56 anni prima della nascita di Leonardo da Vinci.
[26] Nel Medioevo le canzoni o anche
i lunghi poemi che cantavano storie edificanti, d’amore o di cronaca minuta,
avevano la coppia pressoché fissa di un autore patrizio, ossia il Trovatore, e
un esecutore borghese, ossia il Menestrello. Nella Firenze rinascimentale la
tradizione era conservata, ma si era arricchita di nuove figure di musici e
poeti di strada.
[27] Agostino Velletti, La Storia di Ginevra degli Almieri che fu sepolta
viva in Firenze (a cura di Alessandro D’Ancona), Fratelli Nistri, Pisa 1863
(edizione in 250 copie sulla stampa antica). Il poemetto è stato letto per
secoli e conosciuto soprattutto in Italia, come hanno testimoniato il Del Migliore
e il Manni.
[28] Cfr. Franco Ciarleglio,
La sposa resuscitata in Lo struscio fiorentino, p. 71, Edizioni Tipografia
Bertelli, Firenze 2001.
[29] Franco Ciarleglio,
La sposa resuscitata, op. cit., pp. 71-73.
[30] Per evitare il contagio l’avevano
abbandonata, non portandole nemmeno il cibo; da questo potrebbe derivare la
voce popolare secondo cui “il marito era troppo indaffarato negli affari per
avere un minimo di riguardo verso la giovane moglie e lei ormai non mangiava
quasi più ed usciva raramente dalle sue stanze” (Franco Ciarleglio,
op. cit., p. 71).